Buon compleanno al papà de La Sirenetta

andersen

 

« Non importa che sia nato in un recinto d’anatre: l’importante è essere uscito da un uovo di cigno. »

(Il brutto anatroccolo)

Hans Christian Andersen (pronuncia danese [ˈhans ˈkʰʁæsd̥jan ˈɑnɐsn̩]; Odense, 2 aprile 1805Copenaghen, 4 agosto 1875) è stato uno scrittore e poeta danese, celebre soprattutto per le sue fiabe. Tra le sue opere più note vi sono La principessa sul pisello (1835), Mignolina (1835), La sirenetta (1837), La regina delle nevi (1844), Il soldatino di stagno, Il brutto anatroccolo e La piccola fiammiferaia (1845).

L’attività letteraria di Andersen, piuttosto vasta (le opere complete in lingua danese, pubblicate a Copenaghen tra il 1854 e il 1879, comprendono ben trentatré volumi) comincia, di fatto, alla fine degli anni venti del XIX secolo e coincide sostanzialmente con il termine del periodo di studi. Un collega di teatro di Hans aveva parlato di lui come di un “poeta”: spinto dalla sua vocazione artistica, il giovane prende la cosa molto sul serio, indirizzando le proprie energie creative verso la scrittura, divenendo il maggior esponente della cultura letteraria del periodo nel suo Paese.

Gli esordi sono incerti; spesso non chiare nelle motivazioni anche le produzioni immediatamente successive, segnate da una costante ricerca alla scoperta delle vere, personali attitudini, seguendo svariati generi. Tuttavia, la pubblicazione nel 1827 de Il bimbo morente (Det døende Barn) sulla rivista Kjøbenhavnpost, è già accolta favorevolmente da parte della critica, in particolare da Johan Ludvig Heiberg, stella di prima grandezza del mondo letterario di allora. Dopo la pubblicazione di alcune altre singole poesie (nel complesso della sua vita arriverà a scriverne ben 1.024), nel 1829 dà alle stampe il racconto Viaggio a piedi dal canale di Holmen alla punta orientale di Amager (Fodrejse fra Holmens Kanal til Østpynten af Amager i Aarene 1828-1829), nello stile di E.T.A. Hoffmann, esito di un viaggio in Danimarca, sollecitato dal re stesso. Opera acerba, ma accolta con discreto favore sia dal pubblico sia dalla critica. Nel 1830 vedono la luce alcuni vaudevilles, tra cui Amore nella torre di San Nicolao (Kaerlighed paa Nikolaja Taarn, eller Hvad siget Parterret, composto nel 1829), seguiti nell’anno successivo da un volume di poesie Digte (Poesie), che fra i diversi componimenti contiene anche Lo spettro o il fantasma (Dødningen), una sorta di balletto (già apparso nel 1830), secondo approccio con il genere fiabesco dopo La campana sommersa (Dykker-Klokken) risalente al 1827.

Sempre del 1831 è la raccolta Fantasie e schizzi (Phantasier og Skitser). In virtù dell’interessamento di Jonas Collin, lo stesso anno intraprende il suo primo viaggio al di fuori della Danimarca. Al ritorno descrive questa esperienza nelle Silhouettes di un viaggio nello Harz e nella Svizzera tedesca (Skyggebilleder af en Rejse til Harzen og det sachsiske Schweiz), pubblicato nel 1832, affresco vivace e di grande lirismo, spesso di sapore fiabesco, dei luoghi e degli artisti che incontrò in Germania. Escono contemporaneamente due melodrammi La sposa di Lammermoor (Bruden fra Lammermoor) (il romanzo gotico di Sir Walter Scott con lo stesso titolo è del 1819, mentre il libretto d’opera di Salvadore Cammarano per Gaetano Donizetti è soltanto del 1835) e Il corvo (Ravnen eller Broderprøven) (quest’ultimo porta piuttosto curiosamente lo stesso titolo del più famoso componimento di Edgar Allan Poe edito nel 1845). A questi, è da aggiungere la pubblicazione dei versi descrittivi in Vignette per poeti danesi (Vignetter til danske Digtere) Il 18 dicembre 1832, vede la luce la composizione poetico-drammatica I dodici mesi dell’anno. Disegnato da inchiostro e penna (Aarets tolv Maaneder.Tegnede med Blæck og Pen), diffuso editorialmente nel 1833, strutturata in dodici parti, una per ogni mese dell’anno di cui porta il nome; più simile a una raccolta lirica che al testo di un dramma, nonostante presenti anche dialoghi, essa contiene i versi di Barn Jesus i en Krybbe Laae (mese di dicembre), una canzone che sarà più tardi musicata per pianoforte da Robert Schumann, divenendo un pezzo celebre, molto noto in Danimarca, ma anche nel nord Europa. L’opera è dedicata al sovrano danese Federico VI e viene consegnata personalmente a quest’ultimo dall’autore, che l’occasione per perorare la sovvenzione di un suo già ripetutamente richiesto viaggio nel sud del continente.

Solo nella primavera del 1833, tuttavia, riesce a ottenere una borsa di studio, per affrontare quel Grand Tour tanto desiderato, vero viaggio iniziatico, che lo porterà, dal mese di aprile e fino all’agosto del 1834 in Francia e in Italia. A Le Locle, 1833, scrive il dramma Agnete e il Tritone (Agnete og Havmandense), conosciuto anche come Agnese e l’uomo del mare, che viene dato alle stampe l’anno stesso, mentre a Roma, nel 1834, comincia il romanzo di grande successo L’improvvisatore (Improvisatoren)1835), completato al rientro in patria, in cui narra dei suoi viaggi in Italia, che gli valse notorietà in tutta Europa. Come scrive Paul Krüger, nel saggio già citato, si tratta di un’opera “un po’ convenzionale nella trama e nella concezione, ma ricco di colore e romantica suggestività”, dove domina la “freschezza genuina, festosa e confidenziale, quasi di bimbo” e del viaggiatore costantemente pronto a nuove avventure e contento di nuove scoperte, stupito della bellezza del mondo. Analogo afflato si ritrova nell’Album senza figure (Billedbog uden Billeder) del 1840, dove con estrema levità la luna descrive a un pittore le proprie visioni nel suo errare sopra la terra, in particolare durante i pleniluni, quando realtà e sogno sembrano fondersi.

Già dal 1835 appare la prima pubblicazione di Fiabe (Eventyr), che costituiranno la sua produzione più importante, sebbene non subito riconosciuta come tale. Con cadenza quasi annuale, le pubblicazioni si succedono fino al 1872 (non di rado la prima edizione è in inglese, anziché in danese. L’insieme di queste danno origine a diverse raccolte, le prime due proprio del 1835 dal titolo Eventyr, fortalte for Børn. Første Samling. Første Hefte (Fiabe, raccontate ai bambini. Prima raccolta. Primo tomo, 8 maggio 1835) e Eventyr, fortalte for Børn. Første Samling. Andet Hefte (Fiabe, raccontate ai bambini. Prima raccolta. Secondo tomo, 16 dicembre 1835), che comprendono composizioni uscite nei periodi antecedenti, per un totale di 156 fiabe (numero fissato da Birger Frank Nielsen nella sua celebre biografia dello scrittore Dirgterens danske Værken 1822/1875, 1942); altri cataloghi, più recenti, ne computano 168, includendovi Likke-Peer/Lucky Peer, o addirittura 212, uniformando alle fiabe in senso stretto, anche composizioni che richiamano soltanto il genere. Parlando della fiabe vere e proprie, o tali considerate, le ispirazioni sono diverse: folklore popolare, racconti per l’infanzia, fiabe, novelle tradizionali, dove la materia esistente è a volte lasciata senza modifiche sostanziali (Principessa sopra un pisello, I vestiti nuovi dell’Imperatore), oppure viene trattata come semplice spunto (la stragrande maggioranza dei casi) e rielaborata sulla base di invenzioni personali (ad esempio La Regina delle nevi, Compagno di viaggio) dando vita, per la prima volta, alla fiaba d’autore, propriamente intesa, o per meglio dire contemporanea. “La cosa che egli crea e che non esisteva prima di lui (…) è la fiaba nata dall’incontro diretto tra uno scrittore e il suo pubblico, nel quale la fiaba tradizionale non agisce da modello (sono scomparsi i maghi, le fate, le streghe), ma solo da pretesto che si allontana. Tralasciando Charles Perrault, e la novellistica di corte del Sei-Settecento, oltre alla fiaba d’arte romantica (Ludwig Tieck, Novalis, Clemens Brentano, Achim von Arnim, Bettina Brentano e altri) gli autori di fiabe che, a quest’ultimo proposito, vengono più spesso accostati sono i due fratelli tedeschi Jacob e Wilhelm Grimm e Andersen. Tuttavia, la novità di quest’ultimo, e volendo il “limite”, rispetto ai primi, come scrive Gianni Rodari risiede nel fatto che “le fiabe dei Grimm scendono, o salgono, dalla più lontana preistoria, diciamo all’ingrosso indoeuropea: quelle di Andersen nascono nella storia e nella letteratura direttamente, quasi tutte senza aver prima attraversato millenni e frontiere per incarnarsi nella lingua danese (…)

Ritratto dei fratelli Grimm (Wilhelm a sinistra e Jacob a destra), eseguito da Elisabeth Maria Anna Jerichau-Baumann nel 1855

I Grimm raccolsero le loro fiabe dalla bocca del popolo tedesco, in un particolare momento del Romanticismo (…) Andersen raccontò qualcuna delle fiabe ascoltate da bambino, nella libera traduzione della sua memoria: il “corpus magnum” delle sue fiabe se lo è tirato fuori, pagina per pagina, dalla sua fantasia e dalla sua vita. Il racconto è suo, quello che importa è il ricordo personale: anche l’elemento, lo spunto tradizionale si piega alla sua esperienza. Molti dei racconti, infatti, traggono origine da episodi di vita vissuta: la danzatrice de Il tenace soldatino di stagno è probabilmente la trasfigurazione di quella che derise da giovane Andersen per i suoi modi sgraziati e le sue continue lettere di raccomandazione. Cinque in un baccello trae spunto dalla memoria di un vaso di legno in cui erano piantati un aglio e un’unica pianta di pisello davanti alla casa dello scrittore bambino, così come da un litigio con l’amica Henriette Wulff si ispira il satirico La principessa sul pisello o, alla deformità della stessa bimba, il bonario racconto di Mignolina. K.A.Mayer in un suo articolo, ritagliato e citato dallo stesso scrittore danese nella sua autobiografia, sostiene che “al suo culmine la fiaba di Andersen colma la lacuna tra la fiaba dell’arte romantica e il racconto popolare quale è stato raccolto dai fratelli Grimm (…) e si tratta di una “fiaba (…) portatrice di pensiero”. La forza innovativa del genere, da parte di Andersen è sottolineata anche da Knud Ferlov che rileva la capacità di far convivere sperimentazione e tradizione nei racconti, con riferimento particolare alla lingua. Fortemente sconveniente venne giudicata dall’ambiente accademico, ma anche dagli ammiratori, l’introduzione, ad esempio, della lingua parlata in ambito letterario, spesso non curandosi dei legami sintattici, o addirittura sostituendo alle parole, suoni e voci sconclusionati. Al contempo, in questo apparente caos linguistico (e grazie proprio anche a esso), traspare il profondo spirito popolare danese, definito lune, un insieme di bonomia, modestia, di allegria e monelleria, di fierezza ingenua, caratteristico della terra natìa di Andersen, in cui dominano le sfumature. Stupefacente e innovativo rimane, in ogni caso, l’approccio, da uomo disincantato, ma al contempo fiducioso, pervaso di un candore infantile nell’abbandono alle proprie sensazioni ed emozioni. Andersen crede in ciò che magicamente si anima nelle trame che viene creando, sorridendone, ma ugualmente convinto della loro “possibile” esistenza in un mondo governato, in fondo, da una benigna volontà provvidenziale.

“Andersen scopre nuove sorgenti del meraviglioso (…), non si deve equivocare con prodotti artigianali e surrogati quali la novelletta edificante, il raccontino didascalico o moralistico, insomma quella che viene chiamata (…) letteratura pedagogica. Il poeta danese ci dona un tipo di fiaba utile alla formazione della mente, di una mente aperta in tutte le direzioni: una leva fondamentale per l’educazione di un uomo, che non sia solo un esecutore ordinato e limitato, un consumatore facilmente plasmabile e pedissequamente subalterno. “Al di là del contenuto immediato e dell’ideologia di cui possano essere di volta in volta portatrici” ci aiutano a conformare criticamente la mente e ad affrontare la realtà con occhio spregiudicato: “di inventare dei punti di vista per osservarla, di vedere l’invisibile, come lo scienziato vede le onde elettromagnetiche dove nessuno aveva mai visto nulla; insomma, proprio come Andersen vede un’intera storia sulla punta di un ago da rammendo”.

Da principio trovano maggior riscontro romanzi come O. T. (il titolo richiama le iniziali del protagonista, Otto Thostrup, ma anche la sigla con cui era noto il carcere minorile di Odense – Thungtus Odense/Riformatorio di Odense) del 1836 o Soltanto violinista (Kun en Spillemand) dell’anno successivo. Il primo incentrato sulle amarezze e la profonda solitudine del protagonista, diviene anche occasione per raccontare, su uno sfondo comunque rilevante, le trasformazioni della società danese e i travagli dei movimenti liberali e democratici in Europa. Nel secondo, si racconta la storia di due ragazzini che, innamorati fin dall’infanzia, ma costretti a separarsi, continueranno a cercarsi per tutta la loro vita. Il protagonista è un grande sognatore, sopraffatto dalle spietate regole del mondo degli adulti. Entrambe le opere, verranno tradotte in breve tempo in numerose lingue europee. Nello stesso anno, il 1837, appare sulla “Revue de Paris” una sorta di biografia dello scrittore danese, curata da Xavier Marmier, intitolata Une vie de poète che, ripresa in vari Paesi, contribuisce non poco alla diffusione della notorietà di Andersen in Europa. Intensa è l’attività per il teatro di questi anni. Nel 1838, lo scrittore riesce finalmente a vedersi riconosciuto un vitalizio come letterato, che gli consente di non scrivere più per necessità economiche. Del 1840, le opere teatrali, destinate però all’insuccesso, Il mulatto (Mulatten), Maurerpigen e Una commedia in verde (En Comedie i det Grønne).

Con il desiderio di recarsi nuovamente all’estero, mai sopito fin dal suo ritorno dal precedente viaggio, grazie a un sussidio reale, nel 1840 riesce a partire nuovamente per la Germania, l’Italia, Malta, la Grecia, Costantinopoli, facendo ritorno, durante le rivolte balcaniche, lungo il corso del Danubio, praticamente dal delta fino alla capitale austroungarica. Da Vienna attraverso la Germania raggiunge di nuovo la Danimarca. Le impressioni, di grande interesse culturale, politico e etnografico, raccolte durante questo soggiorno in paesi stranieri costituiranno il materiale letterario per Il bazar di un poeta (En digters bazar), che uscirà in volume nel 1842. A metà degli anni 1840 Andersen è già noto in gran parte d’Europa, sebbene abbia ancora difficoltà sociali nella sua Danimarca. In questo periodo torna, all’amore di sempre: il teatro. Del 1844 è l’opera teatrale Il re sognatore (Konger Drømmer)e dell’anno successivo la commedia di ispirazione fiabesca Il fiore della felicità (Lykkens Blomst). Il 1846 vede l’uscita del libretto d’opera La piccola K. (Liden Kirsten), musicato da Johann Peter Emilius Hartmann, di cui Andersen scriverà una biografia. L’editore londinese della “Literary Gazette”, William Jerdan invia allo scrittore danese una lettera con cui lo invita a visitare l’Inghilterra. Andersen gli risponde con calore, entusiasta di poter recarsi in un Paese “la cui letteratura ha così indelebilmente arricchito la mia immaginazione e colmato il mio cuore”.

Nel giugno del 1847, Andersen visita l’Inghilterra dove ottiene un’accoglienza trionfale. Questo viaggio segna una vera e propria svolta nello sviluppo letterario dello scrittore. Alcuni romanzi e fiabe erano già stati tradotti tra il 1845 e il 1847 in lingua inglese e numerose riviste letterarie britanniche avevano favorevolmente recensito tali opere. Jerdan gli procura numerosi incontri con esponenti del mondo letterario anglosassone, tra cui quello con Charles Dickens che, la prima volta, non riesce ad avere luogo. Quest’ultimo, si premura comunque di far recapitare al danese una copia delle proprie opere con dedica personale. Andersen rimane colpito profondamente e favorevolmente da Londra, paragonandola, per fascino, solo a Roma (“Londra con le sue giornate frenetiche, Roma con le sue notti di silenzio”), sebbene nel suo diario non manchino annotazioni circa le condizioni miserabili in cui le classi meno abbienti sono costrette a vivere. L’incontro con l’autore de Il circolo Pickwick è tuttavia, solo rimandato. Esso avviene nel mese di agosto a Ramsgate, presenti i familiari dello scrittore inglese. Da questo scaturisce una profonda amicizia tra i due uomini che darà vita a un intenso, seppur irregolare, scambio epistolare per oltre un decennio, oltre che a un ulteriore incontro a Londra nel 1857.

Il poeta danese scrive, parlando del momento in cui i due si lasciarono: (Dickens) “era partito da Broadstarirs per salutarmi, e indossava un abito verde sdrucito e un kilt scozzese colorato in modo allegro, di un inglese elegantissimo. È stato l’ultima persona a stringermi la mano in Inghilterra e ha promesso di scrivermi. Mentre la nave si allontanava dal porto, riuscivo ancora a vederlo: credevo se ne sarebbe andato via molto prima! Agitava il cappello e alla fine ha anche alzato una mano verso il cielo. Mi chiedo se volesse dirmi: ‘ci rivedremo lassù!’. Il soggiorno britannico, grazie ai buoni uffici di Richard Bentley, già editore delle opere del danese in Inghilterra, che gli permette di stringere importanti accordi editoriali, apre definitivamente ad Andersen le porte del mercato anglosassone, che rappresenterà, da quel momento in avanti, uno dei punti di riferimento all’estero per la sua produzione, insieme con quello statunitense. Un rapporto, quello con il mondo letterario e editoriale inglese, che sarà comunque segnato da non poche difficoltà e incomprensioni. Nella raccolta di fiabe uscita quell’anno (Nuove fiabe. Secondo volume. Prima raccoltaNye Eventyr. Andet Bind.Første Samling) Andersen inserisce una dedica speciale per lo scrittore inglese: ” Sento un desiderio, una bramosia di radicare in Inghilterra la prima fioritura del mio giardino poetico quale augurio natalizio: ed è grazie a te, mio caro, nobile Dickens che coi tuoi libri mi sei stato amico prima di conoscerti”[34]. Nello stesso anno esce la stesura definitiva del dramma Ahasversus (Ahasversus).

La maturità[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1849, esce il romanzo Le due baronesse (De to Baronesser/The two Baronesses).

Riguardo a questa opera riceverà una lettera appassionata da Dickens, che aveva avuto una copia dedicata del libro in inglese: “Mia moglie e i ragazzi insistono perché ti saluti tanto, e siamo tutti ansiosi di sapere quando ci allieterai con un nuovo libro. Siamo gelosi di Stoccolma e siamo gelosi della Finlandia, e ci ripetiamo che tu dovresti stare a casa, a casa e in nessun altro posto! (Eccetto l’Inghilterra, naturalmente, in cui ti accoglieremmo con tutto il cuore). A casa con una penna in mano e un bel plico di fogli bianchi davanti a te”. Altri vaudevilles, di motivo fiabesco, come Meer end Perler og Guld, Ole Chiudigliochi (Ole Lukøje) o Madre Sambuco (Hyldemoer) caratterizzano la produzione della fine degli anni ‘quaranta e degli inizi degli anni cinquanta. A quel periodo risalgono le due commedie (1850) La nuova camera della puerpera (Den nye Barseltue e Una notte a Roeskilde (En Nat i Roeskilde). Da ricordare ancora il romanzo filosofico Essere e non essere (At være eller ikke være) del 1857. Tra gli episodi di maggior rilievo vi è il secondo soggiorno in Inghilterra di Andersen su invito di Dickens nel luglio 1857, a seguito del quale l’amicizia tra i due si raffredderà non poco, almeno da parte dell’inglese (ricordato in Una visita a casa di Charles Dickens d’estate. 1857Et Besøg hos Charles Dickens I Sommeren. 1857-, edito nel 1860). Pare che l’invito fosse per un breve periodo, ma Andersen si fermò presso l’abitazione dello scrittore, Gad’s Hill, per oltre sei settimane, fino al mese di agosto. Questo fatto influì negativamente sul giudizio complessivo che l’ospite britannico si era fatto del danese, ridimensionando la sua stima incondizionata. “L’ipersensibilità di Andersen e la sua necessità di attenzione, come ospite e straniero, provocarono infatti non pochi disagi alla famiglia Dickens. E soprattutto non poche incomprensioni. Dickens aveva garantito che durante quell’estate sarebbe stato libero e a completa disposizione per il suo ospite, ma fu invece indaffaratissimo fra la stesura de La piccola Dorritt (La piccola Dorritt) e numerose altre attività. Il temperamento di Andersen, d’altra parte, era effettivamente delicatissimo. E alcune recensioni a articoli sprezzanti su di lui, che gli pervennero in quelle giornate complicarono di più il suo stato d’animo”. Al termine di quel soggiorno, Dickens, che si era dato da fare per presentare Andersen nei circoli letterari e teatrali londinesi più esclusivi, superando non poche difficoltà anche linguistiche, scrisse: “(Andersen) ci fa passare pessimi momenti. Sono persino arrivato alla convinzione che non parli come si deve neppure il danese. Almeno è ciò che sostiene la sua traduttrice, e sarebbe in grado di giurarlo di fronte a un giudice”. Si sostiene addirittura che lo scrittore inglese si sia ispirato ad Andersen per creare la spregevole figura di Uriah Heep, nel celeberrimo romanzo David Copperfield, edito tra il 1849 e il 1850. Tuttavia, il disincanto dell’inglese per Andersen risale a molti anni dopo la pubblicazione del romanzo (momento in cui le affinità tra i due raggiungono invece vertici quasi idilliaci) e tale connessione non sembra probabile. Il danese, viceversa, dopo aver lasciato l’ospite britannico gli scrive: “Dimentica, amico, il lato oscuro di me che la troppa vicinanza potrebbe averti illuminato.Vorrei tanto vivere nel ricordo di una persona che ho amato come un amico e un fratello”.

Per parte sua, Andersen rimarrà affettivamente, sebbene univocamente, legato a Dickens fino alla morte di quest’ultimo (1870), tanto da annotare nel proprio diario il giorno della scomparsa dello scrittore: “La sera del 9 giugno – ho letto – Charles Dickens è mancato. Non ci rivedremo mai più su questa terra. Non avrò mai una spiegazione sul perché non abbia risposto alle mie lettere” Tra il 1853 e il 1863, scriverà inoltre ben sette opere teatrali. In riferimento allo stesso periodo, non sono poi da trascurare i numerosi resoconti di viaggi: in tutto lo scrittore ne affrontò probabilmente una quarantina, anche fuori dall’Europa, (almeno 29 sono documentati) tra cui In Svezia (I Sverrige) del 1851, In Spagna (I Spanien) del 1863 e Una visita in Portogallo (Et Besøg i Portugal) del 1866. Si tratta di racconti atipici, che coniugano brani di tipo documentaristico a “excursus” (digressioni, divagazioni erudite) di natura filosofica. In In Svezia sono inserite anche alcune fiabe.

Conquistato il successo, Andersen continua a scrivere moltissimo, anche per il teatro, sebbene un numero notevole di opere usciranno dopo la sua morte. Inoltre, non recede dal viaggiare, producendo diversi resoconti. La sua già citata autobiografia La fiaba della mia vita (Mit Livs Eventyr, uscita in due volumi nel 1855 in lingua danese, che riprende anche La mia fiaba personale senza composizione redatta nel 1847 vede un seguito La storia della mia vita The story of my life, edita in inglese, nel 1871. A essa si aggiunge una continuazione Fortsœttelse che riguarda il periodo 1855-1867, pubblicata postuma a cura di Jonas Collin, nel 1877. L’ultima Ricordi (Levnedsbog), incompiuta, esce anch’essa dopo la morte dello scrittore, nel 1926. Nel 1866 viene nominato consigliere di Stato e nel 1867 diviene cittadino onorario di Odense. Riconosciuto dalla critica, in particolare da Georg Brandes, come vero rinnovatore del genere fiabesco, si reca per ben due volte all’Esposizione Universale di Parigi (visita riecheggiata poi nella fiaba La Driade). In questo periodo alcune fiabe e raccolte di fiabe approdano sul mercato librario e sulle riviste letterarie statunitensi, grazie all’interessamento dello scrittore per l’infanzia ed editore newyorkese Horace Eliash Scudder. Quest’ultimo gli riconosce il più alto compenso mai ricevuto dall’estero per la pubblicazione delle sue opere, una cifra equivalente a circa 450 sterline, oltre a tributargli il titolo di “grande maestro”, pur essendo egli stesso un noto scrittore di libri per l’infanzia.

Oltre alle autobiografie, Andersen tiene un diario, redatto quotidianamente nel corso di gran parte della sua vita, e composto da ben 12 volumi. Notevole l’epistolario.

Nel 1870, scrive il suo ultimo romanzo Peer fortunato (Lykke-Peer), ritornando a uno dei temi a lui cari ossia il giovane povero e geniale destinato al successo, ma piegando il finale a una momento eroico: il protagonista è stroncato da un infarto, mentre canta in un’opera da lui composta. Come sottolinea Bruno Berni, una morte “nella gioia della vittoria, come Sofocle ai giochi olimpici, come Thorvaldsen a teatro, ascoltando una sinfonia di Beethoven”. Nonostante il prestigio e il successo delle sue opere, Andersen versa in condizioni di semi indigenza economica. Numerosi i sostegni in denaro che gli arrivano dalla Danimarca e dagli Stati Uniti e da altri Paesi europei. Pur commosso dalla solidarietà dei lettori, dichiarò: “Non posso accettare alcun dono che provenga da altri individui. Diversamente, anziché sentimenti di orgoglio e gratitudine, proverei umiliazione”

Nella primavera del 1872, Andersen cade dal letto facendosi molto male. Non si riprende mai del tutto. A testimonianza del perdurare anche in vecchiaia di una sensibilità instabile e contraddittoria nello scrittore, in una lettera del 1873, indirizzata a Edward Collin, Andersen annoterà: “È meraviglioso avere degli amici a questo mondo, amici come quelli che ho io”, alla fine dello stesso anno, in un altro scritto, si esprimerà così: “Non vedo progresso, non vedo futuro. Se la vecchiaia è questo, è terribile”. Nel 1874 posa per una scultura che gli fu eretta, fra molte polemiche, ancora in vita Per il suo settantesimo compleanno gli vengono tributati onori da tutto il mondo da parte dei suoi lettori. Poco prima di morire, pare che chieda bizzarramente alla signora Melchior, presso cui alloggia, di tagliargli un’arteria dopo morto e di far incidere sulla sua lapide l’epigrafe: “Non sono morto davvero”. Andersen spira il 4 agosto 1875, in pace, in una casa chiamata Rolighed (letteralmente: quiete), di proprietà della famiglia Melchior appunto, agiati commercianti suoi amici, nei dintorni di Copenaghen. Il suo corpo viene deposto nel cimitero retrostante la chiesa dell’Assitenza nell’area della capitale danese nota come Nørrebro.

piuttosto evidente che le molteplici esperienze giovanili (non ultima quella scolastica) siano correlabili alla maturazione del tema del “diverso” che lotta per essere accettato, centrale nell’opera dello scrittore danese, come si riscontra, ad esempio, ne Il brutto anatroccolo. Un’altra delle ragioni principali per cui Andersen si sente emarginato e rifiutato è da far risalire, senza meno, al modesto aspetto fisico (poco attraente, è alto un metro e ottantacinque, dinoccolato e si dice porti scarpe tra il numero 47 e il numero 50) e ancor più nelle sue inclinazioni sessuali. Si innamora, tra gli altri, del giovane Edvard Collin a cui scrive: “i miei sentimenti per te sono quelli di una donna, la femminilità della mia natura e la nostra amicizia devono rimanere un mistero”. Un passo del suo diario ci informa come Hans Christian avesse deciso, già in giovane età, di non avere rapporti sessuali (rimase per sempre scapolo) né con donne né con uomini. Questa propensione darebbe conto dell’insistente attenzione all’emarginazione sentimentale, un altro dei temi ricorrenti nell’immaginario del poeta, strettamente connesso a quello qui trattato (si pensi alle fiabe Il soldatino di stagno e La sirenetta). Tuttavia occorre, forse, approfondire brevemente il tema, osservando anche da un’altra angolatura il concetto di “differente” che pervade l’opera dello scrittore: questo per comprenderne più compiutamente la singolarità e la valenza letteraria, non solo come esito di spiacevoli vicende personali o di orientamenti sessuali articolati, pur da considerarsi una costante alla radice della sua ispirazione nonché dei suoi comportamenti e relazioni. L’idea del diverso in Andersen rimanda, per molti versi, a quella di “non collocato o non collocabile”, riferito a qualcuno che ineluttabilmente, per sua natura, non può trovare il proprio posto nella realtà che lo circonda, come “sospeso” tra due mondi a nessuno dei quali può appartenere appieno.

In fondo, anche il “lieto fine” dei racconti, quando compare, suona ambiguo, quanto meno volutamente duplice per il pubblico dei ragazzi e quello degli adulti: la gioia dell’anatroccolo mutato in cigno induce piuttosto il lettore a riflettere se la vera felicità del protagonista non risiedesse piuttosto nella sua vita precedente, quando nuotava nel fango a contatto con la più profonda essenza della natura, anziché nel superbo, appagante distacco della sua nuova condizione[. Allo stesso modo, in cui ambivalenti sono, all’occorrenza, gli “infelici” finali: edificante, e in ultima analisi tranquillizzante, è la morte drammatica la notte di Capodanno della “piccola fiammiferaia” che consuma a uno a uno i suoi cerini per scaldarsi le mani, i quali le procurano, per converso, visioni straordinarie in cui la nonna la chiama in Paradiso. Più di un critico ha trattato questo aspetto, dandone un’interpretazione di natura “ideologica”, quale esito di una visione cristiana intrisa dei “buoni sentimenti” tipici della morale di una borghesia in ascesa, fiduciosa, ottimista, sicura di sé “a cui nessuno aveva ancora svelato con la critica la sua ipocrisia”. Ancora in relazione a “La piccola fiammiferaia”, ma per esteso alla produzione fiabesca di Andersen, una osservazione di Luigi Santucci: (il bimbo che legge) “assomma al suo ottimismo anche una fiducia finale, la certezza di un paradiso che non afferra bene in cosa consista, ma che comprende vada conquistato con un mansueto amore alla propria condizione. Ed è l’avvento di uno dei più preziosi sentimenti per vivere la vita (…) appunto una persuasione alla vita, un fornire sentimenti atti a conservare una felicità che resista ai mali dell’esistenza è il fondo dell’arte anderseniana”. Scrive ancora Lina Sacchetti: “la conclusione è sempre vittoria o premio meritati per le qualità morali messe in azione dai protagonisti, oppure è punizione per i loro difetti e le loro colpe, spesso con duplice significato”. Osservazioni sicuramente fondate, ma che in qualche modo danno conto, come suggerisce Gianni Rodari, piuttosto della storia letteraria che non dell’essenza dei racconti.

La percezione di “sospensione”, di “essere e non essere” nello scrittore danese inclina altresì verso quello di “doppio”,in cui pare di poter cogliere il suo convincimento di essere ” imprigionato” in una personalità a cavallo tra realtà diverse, senza poter appartenere veramente a nessuna, che non sia quella ideale ove si realizza l’unione tra poesia e natura. Questo luogo ideale è il gioco letterario. “Andersen è lo spirito del gioco. Gioca con le vecchie fiabe, gioca a inventarne di nuove, gioca a scoprire fiabe dappertutto, in chiunque gli passi accanto”. E il gioco è per sua natura fluido, risponde totalmente solo alla fantasia, con le sue “leggi” (gli oggetti quotidiani a cui fanno riferimento i racconti sono soltanto la materia prima grezza da utilizzare), ma in una metamorfosi completa, senza residui, in cui l’impronta ideologica è mero aspetto contingente. Una dimensione appagante, che permette, prima ancora che al lettore, all’autore stesso di moltiplicare la propria libertà, senza vincoli identificativi. In questa logica meglio si comprende anche il senso della morte e della vita dello scrittore danese, non solo collegato a una visione cristiana. I due aspetti si compenetrano inscindibilmente, con prevalenza inaspettata, ma naturale, in cui la morte “è un passaggio nero tra due mondi diversamente, ma ugualmente luminosi”. Sempre in ordine al ragionamento sul “doppio”, come ricorda Johan de Mylius tutta la vita di Andersen è segnata da una sorta di duplicità, da una sospensione tra due mondi e due epoche. La nascita indigente e la voglia di riscatto sociale, sollecitata anche dal padre e da vagheggiate improbabili ascendenze, raggiunta con maggior difficoltà di quanto probabilmente sperasse, ne è un esempio: un bipolarismo tra sofferenza e risarcimento, che non risolverà mai del tutto, e “dal quale scoccherà la scintilla della sua poesia”. Si pensi ancora, alla contrapposizione tra la vita di provincia chiusa, fortemente ancorata alle tradizioni di una società arcaica a Odense e l’incontro con il nuovo mondo “borghese”, aperto alla modernità, di Copenaghen e in maggior misura nelle altre città europee; così come la fascinazione generata dall’ascolto dei racconti e delle leggende secondo la prassi della trasmissione orale e la necessità, sostenuta da forte desiderio, di aderire alla cultura emergente fondata viceversa sul libro e l’opera d’autore (che di tale tradizione contadina sancisce il declino), rappresentano ulteriori elementi interpretativi a favore di una percezione della “diversità” decisamente complessa e articolata. L’incontro con tecnologie del tutto rivoluzionarie (si veda la descrizione del telegrafo in “il bazar del poeta”), messe a confronto con superati strumenti di comunicazione, le cui nuove potenzialità applicative vengono colte, per molti aspetti, come l’esito di una lirica magia umana (ancorché il frutto di una prosaica ricerca scientifica) è altrettanto significativa, al pari di un’importante considerazione sul periodo storico in cui lo scrittore si trova a vivere. Un’epoca in ci si assiste al passaggio definitivo da un’organizzazione sociale agricola, feudale e “mercantile”, oligarchica a una di tipo industriale, borghese, democratica: la Restaurazione postnapoleonica imperante, è, infatti, percorsa da vivi fermenti di liberalismo e da pressanti tensioni politiche tese all’autodeterminazione dei popoli, che porterà, anche in Danimarca, alla fine dell’assolutismo e all’affermarsi di una monarchia costituzionale e parlamentare.

Si può concludere che le vicende e le inclinazioni personali si saldino, dunque, sorrette da una sensibilità non comune,spesso morbosa, a questa miriade di sollecitazioni e trasformazioni in cui il poeta pare restare “in bilico”, quasi “sdoppiato”, apparentemente non in grado di “collocarsi”. In questo atteggiamento non notiamo, in ogni caso, alcun rimpianto del passato, semmai un moderato ottimismo verso il futuro, , sostenuto da una fede religiosa più profonda di quanto solitamente sottolineato, improntata a una visione della Provvidenza, fortemente segnata dall’idea di predestinazione (tipicamente protestante), personalmente enfatizzata con funzioni rassicurative di natura psicologica. Su tutto prevale, tuttavia, una marcata propensione a una forma di scetticismo esistenziale (angst). Un “non più” e un “non ancora” che inducono, per altro verso, a considerare Andersen come l’ultimo degli esponenti romantici e, al contempo, un attento frequentatore, per stili e temi, del realismo ai suoi albori. In questa luce, il tema del “diverso” assume, pertanto, uno spessore più ampio e letterariamente significativo. Affrontato con rara, singolare partecipazione, frutto di una sensibilità viva e accesa, esso costituisce il nucleo più profondo della poetica dello scrittore danese, regalandoci spunti di riflessione sulla condizione umana, mai discosti dall’abilità di incantarci con straordinaria suggestione.

Non poche opere (O.T., Soltanto violinista, come pure alcune sequenze dei resoconti di viaggio), sono intrisi della presenza della morte e del macabro e dal loro speculare contrario: l’immortalità quale trasformazione in qualcosa di superiore, di congiungimento o ricongiungimento all’affetto perduto, o sottratto prima ancora di essere posseduto. In particolare, i racconti fiabeschi.

Il ricorso al macabro è frequente, ben oltre l’utilizzo strumentale o l’effetto narrativo, così come le immagini di mutilazione (si pensi a La sirenetta, a suo modo senza gambe, a Il tenace soldatino di stagno, con un’unica gamba, o ancora a Le scarpette rosse, dove alla protagonista vengono amputati i piedi). “Spesso la mutilazione è il punto di partenza “scrive Simonetta Caminiti “per un passaggio a un livello diverso della vita, terrena o ultraterrena: la Sirenetta vive nell’amore per l’essere umano – un essere umano normalissimo, benché sia un principe e sia molto bello, un autentico e banale cliché-la forza per rinunciare a tutto, un transfert che le farà abbracciare tre elementi:l’acqua, dalla quale parte, la terra nella quale amerà in silenzio versando sangue dai piedi e (da ultimo) l’aria (alla fine della storia diventerà proprio un’invisibile figlia dell’aria). Nell’amore e nel dolore, a causa della sua inadeguatezza, le sarà risparmiato solo il fuoco. Eppure nel fuoco muore un altro piccolo eroe di Andersen: il Soldatino che, nella morte, trova l’adorata e bellissima ballerina di carta. Il cuore e la stella sotto la cenere sono la prova della loro trovata felicità. Ai personaggi di Andersen, i quali cercano strenuamente (e spesso invano) di essere accettati, tocca aspirare al cielo perché si comprenda che erano esseri speciali”. Anche in questo tema, che si ricollega strettamente a quelli già trattati, ritroviamo la radicale convinzione di Andersen che per aspirare al bene la condizione è spesso la sofferenza. Sempre, che questa ambizione si realizzi poi veramente, dal momento che bene e male, vita e morte appaiono a volte un tutt’uno: due facce della medaglia dell’esistere.

Come già accennato nei racconti di Andersen non troviamo quasi più gli elementi della fiaba classica. Maghi, fate, streghe sono praticamente scomparsi così come rivisitata è la lotta tra il bene e il male che di quella tipologia di racconto costituisce l’ossatura e l’essenza. Numerosi sono, invece, gli esempi di narrazione costruiti su un impianto d’ispirazione “favolistica”. Scrive Simonetta Caminiti a questo riguardo:”Animali (e oggetti) rappresentano la natura umana, ma in chiave di parodia e si fanno beffe della categoria umana stessa. Cicogne che parlano degli artifici linguistici dell’uomo, definendo però il paradosso della incomunicabilità; giocattoli che rappresentano il microcosmo della borghesia e del proletariato, in cui un breve invaghimento fa da falso collante; fiori che confabulano fra di loro stupiti delle meraviglie del mondo, ma a corto di strumenti per spiegarsele; paperelle che sarebbero in grado di perdonare a se stesse qualunque gesto, incluso l’assassinio; utensili di nazionalità diverse che interpretano proprio le socio-culture del diciannovesimo secolo” sono di gran lunga i protagonisti preferiti nei racconti di Andersen. Se non si può parlare di un legame diretto con la tradizione di Esopo, Fedro o La Fontaine (l’impianto generale è pur sempre quello della fiaba piuttosto che della favola) è altrettanto innegabile che l’uso di animali, vegetali, oggetti parlanti affonda le sue radici ispirative, con ampia rivisitazione, proprio in quella tradizione.

Una riproposizione letteraria del tutto innovativa della fiaba, in una sorta di commistione moderna di generi, a cui si rifaranno nel secolo successivo i creatori di numerosi comics, che, in fondo, altro non sono che la traduzione contemporanea dei modelli letterari “codificati” dallo scrittore danese.

Nel 1859 gli fu confeerita la Medaglia dell’Ordine di Massimiliano per le Scienze e le Arti (Regno di Baviera)

Pubblicato da librieemozioni

Romana di nascita, ma cittadina del mondo, Paola Bianchi è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne e insegna lingue e materie letterarie, oltre a lavorare come correttrice di bozze e traduttrice. Appassionata di tutto ciò che ruota intorno ai libri ha un proprio blog, www.librieemozioni.altervista.com, che considera un salotto aperto agli amanti della scrittura e della lettura, e ha fondato a Civitavecchia, dove vive, un Club Letterario. Attualmente scrive per il Magazine Caffebook e ha già pubblicato numerosi articoli anche per giornali locali. Il saggio “La Figura del Vampiro dalle origini ai nostri giorni, nelle opere di Anne Rice e Joseph Sheridan Le Fanu” come il romanzo breve “Giochi di luna”, e “Finzione o realtà?” racconto pubblicato in e-book nella raccolta “Raccontami una Storia”, rispecchiano la sua passione per il genere horror, a cui si affiancano anche quello fantasy e thriller.